Un certo genere di rappresentanza 

Maria Grazia Campari

 

 


Nel nostro Paese una forma particolarmente invasiva di maschilismo patriarcale, ampiamente supportato dalla gerarchia cattolica, mette in pericolo la democrazia costituzionale e le sue istituzioni.
Quanto a queste vi è da dire che sono state tradizionalmente occupate da una classe dirigente affollata da forze reazionarie, salvo brevi periodi in cui ristrette élites culturali, agevolate da circostanze eccezionali (guerra perduta, resistenza, movimento internazionale degli anni sessanta del Novecento) hanno potuto temporaneamente dettare l’agenda politica. Ma le leggi di attuazione costituzionale sono state devastate negli anni ottanta del secolo scorso e ai giorni nostri se ne è perfezionata la distruzione.
La qualità del personale politico che si riverbera sulla qualità delle istituzioni suggerisce il suicidio della forma democratica in favore di un assetto tardo medioevale fatto di potentati e di vassallaggi.
Gli esempi recenti sono numerosi e tratteggiano un quadro impresentabile. Basta alludere alla vergogna della presenza al vertice del governo di personaggi come il pregiudicato Di Gennaro, promotore a Genova delle nefandezze poliziesche, una vergogna italiana universalmente conosciuta. Nel silenzio di quasi tutti i partiti politici. Oppure alla produzione mortifera della ILVA, sostenuta da alcune associazioni sindacali. O ancora ai casi di truffe, furti e abusi bipartisan di esponenti politici e persino di esattori delle imposte. Episodi troppo ricorrenti per essere compiutamente menzionati.
Non pare dubbio, quindi, che sia auspicabile un cambiamento radicale degli assetti politici esistenti e anche un ricambio dell’intera classe dirigente, avendo cura di considerare che a questo punto ci ha portato, segnatamente, il governo della polis a sesso unico. Ci si interroga sulla qualità del cambiamento. Alcune pensano che una soluzione possa venire dalla presenza numericamente paritaria di donne e uomini nei luoghi della politica e non solo. Ne riferiscono le compagne della Puglia.
Ho sostenuto la scelta del “50 e50” ovunque si decida, come giurista, quale misura di  adempimento costituzionale, inevitabile ma non esente da rischi.
A questo proposito, è vero, come si legge nella lettera d’invito, che il protagonismo in prima persona di ogni donna è una molla dinamica cui non intendiamo rinunciare.
Occorre, però, interrogarne l’efficacia trasformativa dell’esistente, cominciando col tenere ferme le acquisizioni del femminismo. Che, si è detto, può avvalersi di una elaborazione in autonomia capace di ripensare concetti quali genere, democrazia partecipata, soggetto politico e, in particolare, è in grado di esercitare una critica trasformativa sull’idea di un soggetto politico omogeneo di rappresentanza  e di delega.
Il pensiero critico che ci deriva dalla pratica politica dell’autocoscienza e del partire da sé è uno strumento che va messo alla prova nell’impatto con le istituzioni che richiedono modificazioni profonde e, si badi, strutturali. Non può, infatti, interessarci guadagnare posti migliori su una nave che affonda.
I due mondi contrapposti -quello dell’amore e del lavoro, degli affetti e delle leggi, della biologia e della storia, delle donne e degli uomini (Lea Melandri)- vanno disarticolati, modificati e ricomposti in una diversa armonia. Questo rende probabilmente necessario l’intervento consapevole di molte donne. Il come di questo intervento è il quesito inevitabile e conseguente cui non è facile rispondere. Occorre riflettere e confrontarsi collettivamente.
Dal mio punto di vista la prima, forse fondamentale, questione è quella del percorso, un aspetto apparentemente formale che considero il cuore del problema. Come e con chi si arriva là dove si vuole arrivare. Si è constata un pericolo: la partecipazione anche di molte donne agli assetti istituzionali rischia, come è stato scritto, di avvenire nel segno della inclusione escludente, della collocazione gerarchicamente subalterna.
Il conflitto per l’affermazione dell’autonoma soggettività femminile va quindi portato nello spazio della polis. In quello spazio, però, le donne si presentano come dei senza potere che non hanno costruito l’ordine sociale. Gli uomini si; è un ordine impresentabile, attualmente, ma esiste e non si può annullare per effetto di un pensiero anche forte ma originato da una pratica politica prevalentemente giocata su piani diversi. La realtà è conformata su un potere che è lontano da noi e non ci piace; dovremmo poterci avvicinare collettivamente quel tanto che ne consenta la destrutturazione, riuscendo a non farci assimilare. Come?
Un’ipotesi è di agire il conflitto iniziando col contrastare le pratiche del dominio patriarcale che riscuotono un consenso almeno parziale da parte di chi vi è soggetto, le donne.
Forse la principale di queste pratiche consiste nell’oscurare il ruolo dell’altra da sé in una narrazione dell’esistente tutta incentrata su di una storia a sesso unico, narcisistica e piena di falsità, che ha favorito l’acquisizione del potere di una classe dirigente esclusivamente maschile avvantaggiata dalla divisione sessuale fra spazio privato e spazio pubblico, la ben nota divisione dei ruoli.
Qui si presenta un problema che io vedo bifronte.
Uno lato consiste nella passione femminile per la cura degli altri, espansiva fino alla cura della politica e persino, forse, alla cura del mondo.
Si tratterebbe secondo alcune di una esplicitazione del desiderio di buona vita, secondo altre di una manifestazione di potere sotterraneo sugli altri cui sarebbe difficile rinunciare. O forse di entrambe le cose contemporaneamente.
A me pare che, per quanto potente sia questo potere, la storia dimostri che esso non serve a procurare la buona vita, né a spezzare l’ordine simbolico androcentrico, poichè fa da supporto alla complementarietà e appiana quasi ogni conflitto, nel privato come nel pubblico.
L’altro lato del problema è, appunto, la rivendicazione maschile dell’esclusiva nella appropriazione di ogni spazio pubblico.
La manifestazione di una sorta di individualismo collettivo che si basa sul principio “the winners take all” (i vincenti prendono tutto), un principio che produce inadeguatezza e infelicità, pare per gli stessi vincitori.
In ogni caso a me sembra che chi cura e sostiene non è l’agente che interviene, confligge, modifica, chi fa da supporto si colloca in subalternità.
La pratica politica femminista, che ha rivolto dalla soglia lo sguardo più critico sull’esistente, che si è esercitata e ha prodotto pensiero e azione sui temi più importanti all’ordine del giorno non cura e sostiene, opera anche chirurgicamente per il cambiamento.
Quindi, è necessaria non solo la presenza paritaria dei due sessi nei luoghi della decisione politica, economica, culturale, in attuazione dei precetti costituzionali (una questione di giustizia); è necessaria anche la presa in carico della qualità  soggettiva e della pratica politica da cui ciascuno/a parla.

 

4- Ottobre - 2012